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Italian to French: Littérature créatrice du sens. Une analyse de "Le temps retrouvéé" de Marcel Proust General field: Art/Literary Detailed field: Poetry & Literature
Source text - Italian Queste parole sono tratte da “Il tempo ritrovato”, settimo ed ultimo volume della monumentale opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”, pubblicato postumo nel 1927. La Recherche non è una narrazione ordinata di avvenimenti, il romanzo si concentra su una riflessione psicologica sulla letteratura, sulla memoria e sul tempo, elementi che all’apparenza sparsi si rivelano legati imprescindibilmente gli uni con gli altri quando il “Narratore”, il vero eroe proustiano, scopre il senso ultimo della vita nell’arte e nella letteratura.
L’ultimo volume del romanzo è intitolato “Il tempo ritrovato” proprio perché racconta di come Marcel, il Narratore protagonista, ormai anziano ricordi il proprio passato e lo percepisca in modo diverso da come lo aveva vissuto.
Ogni avvenimento assume un significato differente rispetto a quello che era stato per lui, proprio perché ogni avvenimento è un tempo ritrovato nei suoi ricordi. Quest’ultima è la sezione in cui dopo una serie di riflessioni Proust chiarisce progressivamente la natura della vocazione letteraria; qui si avverano due momenti sovrapponibili ma caratterizzati da un moto contrario: le intermittenze del cuore si convertono in vere e proprie epifanie di senso, mentre il rapporto del soggetto con il Tempo si dissolve recuperando l’esperienza del passato che deve però ancora avvenire attraverso il racconto, la finzione.
É tramite le riflessioni del Narratore che Proust stesso porta a termine una meditazione sul realismo in letteratura.
Parafrasando le parole di Guy Michaud, linguista e letterato della nostra contemporaneità, il talento di un gran romanziere sta nell’illuminare il più possibile il segreto che si nasconde in lui e che sta al centro dell’opera ma che rimane multiplo e indefinito fino a quando l’autore non ne trova la sua unità, che poi darà luce e senso al tutto; l’obiettivo sta nel cercare di cogliere il punto di vista centrale, l’idea matrice alla base a partire dalla quale tutta l’opera si illumina e acquista un senso, nell’interpretazione, nella traduzione ma anche nella vera e propria produzione artistica.
Ed è così che Proust agisce esplorando a partire dalla rottura della quotidianità fino alla scoperta del tempo ritrovato. La scoperta del motivo del tempo che media tra identità e alterità è il segreto fondamentale sul quale riposa tutta l’opera dell’autore, e la letteratura è colei che ne concede il senso ultimo.
L’idea stessa di letteratura e di come farla è stata al centro di riflessioni nella maggior parte di autori di ogni epoca, e infinite sono le considerazioni a riguardo.
Un grande autore degno di nota che ha contribuito al dibattito è stato Italo Calvino, con le sue Lezioni Americane, un ciclo di seminari sulla letteratura che si sarebbero dovuti tenere nella prestigiosa università di Harvard, ma che purtroppo non hanno visto la loro realizzazione a causa della prematura scomparsa dell’autore; sono state infatti solo pubblicate postume.
Parafrasando ciò che l’autore scrive riguardo al processo creativo, egli ci spiega che la fantasia è un “luogo dove ci piove dentro”; secondo lui per fare della buona letteratura, dovremmo agire come dei contenitori di acqua piovana, dobbiamo rimanere aperti alle nuove sollecitazioni e novità.
E poi avviene il processo creativo vero e proprio, diviso in diverse fasi: vi è una prima fase visuale, ci arriva un’immagine vaga, nebbiosa, ancora non chiara nelle sue motivazioni, poi accade una sorta di traduzione verbale dell’immagine in racconto, un modellamento di una massa informe, un plasmare la materia per trarne fuori qualcosa di vivo e più reale; un atto creativo, quasi “divino”, di tradizione biblica; come scrive Michelangelo “ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla”.
Per Calvino è la scrittura che dà corpo ad un'intuizione, la scrittura è un esercizio di maieutica che consente di trarre in realtà una nostra percezione, un nostro pensiero, una nostra fantasia.
L’autore ci parla della scrittura di parole come di una grande spiaggia piena di infiniti granelli di sabbia e quelli sono le parole: “pagine di segni allineati fitti come granelli di sabbia rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in una superficie sempre uguale eppure sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto”. Nonostante esista una sorta di unicità della scrittura determinata dai suoi codici, sempre e comunque avremo la possibilità grazie alla nostra fantasia e al nostro essere unici al mondo di creare una serie infinita e sempre nuova di storie, dobbiamo essere in grado di rimanere noi stessi sempre e comunque.
La teoria della traduzione ci può venire in aiuto qui, e diverse idee sulla traduzione ci aiutano a comprendere meglio il significato di quanto detto.
Un punto di vista considerevole è quello del linguista italiano Antonio Lavieri.
Secondo la sua prospettiva il punto chiave della traduzione è la mimesis, l’imitazione, la rappresentazione.
La traduzione è asintotica, non va intesa come totale coincidenza ma come “somiglianza”, in quanto la pura interscambiabilità tra diversi sistemi non può esistere, non è una scienza esatta come la matematica.
E ancora Emilio Mattioli, docente e intellettuale italiano, continua il discorso sul concetto di “traduzione asintotica”: la traduzione, di qualsiasi tipo essa sia, deve avvicinarsi sempre più all' originale ma senza mai coincidere con esso.
Qui possiamo capire meglio la connessione che vi è tra le due discipline della letteratura.
Così come la traduzione non può che essere un riflesso del testo originario, la scrittura non può arrivare mai a spiegare i nostri pensieri più profondi, ma può provare ad avvicinarvisi, girandoci intorno all’infinito in un atto di codificazione.
Per Paul Valéry, poeta e filosofo francese, non c’è opposizione tra traduzione e scrittura in quanto quest’ultima è una forma di traduzione del pensiero, e così come un testo letterario viene a qualificarsi come oggetto estetico ed ermeneutico, anche la massa non verbale e sensitiva che abbiamo in noi, la “pietra grezza e informe”, viene a porsi come oggetto estetico ed ermeneutico che va interpretato, compreso e poi spiegato con l’uso della forma, della parola.
Per Paul Ricoeur, filosofo francese, fenomenologo e studioso di ermeneutica, il concetto di metafora ci dice qualcosa di specifico sul nostro modo di rappresentarci la realtà: il linguaggio non è copia della realtà ma sua riconfigurazione.
La metafora riproduce una rappresentazione soggettiva della realtà, la metafora reinterpreta la realtà.
In “Temps et récit”, opera monumentale consacrata alla teoria della letteratura, l’autore ci spiega come il racconto sia un atto di poiesis, di produzione semantica e quindi modello interpretativo esemplare poiché produce senso tramite una rappresentazione della realtà, e non come riflesso di essa.
Scrivere è un atto di comprensione e di spiegazione, entrambi di natura personale e soggettiva, e l’unico modo di rappresentare la nostra personale realtà è quella di darne una forma discorsiva narrativa particolare che ce la fa rappresentare in modo soggettivo.
Metafora deriva dal greco metaphorà, composto da meta “oltre”, e phero “portare”.
La metafora è atto di trasferimento, di reinterpretazione della realtà e di creazione originale; attraverso la metafora si crea e si riconosce il senso.
Così accade in tutte le discipline artistiche, attraverso gli strumenti che queste ci danno a disposizione, dalle note musicali a forme visuali, noi trasferiamo un’idea in opera.
Ed è la forma che dà senso al tutto, l’ordine, l’armonia, lo spirito apollineo che dà significato al caos dell’impulso dionisiaco.
Ed è proprio Nietzsche che ci spiega come ogni tentativo dell’uomo di “impadronirsi” della realtà, ovvero di comprenderla, non può che fallire dal momento che essa non è sottoposta ad un ordine razionale superiore; l’espressione che usa in questo senso è natura rerum, una natura delle cose che l’uomo può comprendere e spiegare solo in parte, ma non può appropriarsene in quanto è trascendente alla mente umana.
Ed è proprio questo il limite dell’uomo, l’incapacità di comprendere appieno la realtà che lo circonda; e questo limite è intrinseco alla natura umana, alla sua capacità di interagire con il mondo e al suo modo di spiegarlo, con il linguaggio.
Per Ludwig Wittgenstein “i limiti del mio linguaggio indicano i limiti del mio mondo”, il linguaggio è la torcia che può illuminare solo piccole porzioni dell’oscurità che abbiamo intorno, riuscendo a vederne soltanto una minima parte, e tralasciando il quadro generale della realtà; ed a volte può anche influenzare il modo in cui percepiamo le cose.
Secondo l’Ipotesi della relatività linguistica, conosciuta anche come “Ipotesi di Sapir-Whorf”, che prende nome dai due studiosi statunitensi di origine tedesca che per primi l’hanno formulata Edward Sapir e dal suo allievo Benjamin Lee Whorf, lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla, e nella forma più estrema della teoria, che tra l'altro è ben rappresentata in modo romanticizzato dal film capolavoro di Denis Villeneuve “Arrival”, afferma anche che il modo di esprimersi determini il modo di pensare.
Il sistema verbale di suoni e immagini che assimiliamo da bambini ci permette di comunicare i nostri pensieri dando forma e traducendo qualcosa di simile ad un sistema che si basa su una struttura che ancora non conosciamo bene.
Per Roman Jakobson, tra i più grandi linguisti del secolo scorso, esistono tre tipi di traduzione: una interlinguistica ovvero da una lingua all’altra, una intralinguistica ovvero una riformulazione del testo nella stessa lingua, e una intersemiotica, ovvero in cui il trasferimento di senso passa da un sistema di segni non verbali ad un sistema di segni verbali.
La scrittura è un particolare tipo di traduzione, e seguendo lo schema di Jakobson, è di tipo intersemiotica in quanto il sistema da cui partiamo, quel luogo “dove ci piove dentro”, può essere interpretato come un sistema non verbale, un sistema di cui ancora conosciamo poco da un punto di vista scientifico ma costruito su simboli, sensazioni, colori, immagini e suoni legati ad emozioni e idee.
Un sistema simbolico non strutturato secondo le configurazioni che conosciamo oggi, ma sul quale la psicologia e le neuroscienze moderne vi si stanno focalizzando molto.
Un concetto interessante che può contribuire a questo discorso è quello di Archetipo, sviluppato dallo psichiatra svizzero Carl Jung.
L’Archetipo, dal greco antico arkhêtupon, "modello primitivo", è una forma di rappresentazione a priori contenente un tema universale strutturante la psiche, comune a tutte le culture ma rappresentato in varie forme simboliche.
Jung considera l'archetipo “una struttura di rappresentazione a priori”, o anche come un’immagine primordiale; gli archetipi sono forme istintive di rappresentazione mentale.
Gli archetipi tradizionalmente compaiono nei miti, nelle religioni, ma anche nei sogni; formano categorie simboliche che strutturano culture e mentalità e orientano il soggetto verso la sua evoluzione interiore, definita individuazione nella psicologia di Jung.
Per quest’ultimo, gli archetipi sono fondamentalmente caratterizzati dal fatto che uniscono un simbolo a un'emozione. La capacità immaginativa umana è quindi formata da un insieme indefinito di archetipi legati tramite una struttura simbolica a sensazioni ed idee.
Poiché rappresentano temi universali che sono all’origine di tutte le domande sull’avvenire dell’uomo o sulla sua natura più profonda, gli archetipi formano un “campo di significati” raggruppando tutte le rappresentazioni umane; sono così correlati tra loro a seconda della cultura di riferimento e dell’epoca a cui si fa riferimento. Ma essi possono anche influenzarsi tra loro, “contaminarsi”; la “legge di contaminazione” appunto descrive questo tipo di realtà, di cui è impossibile farne uno schema dato che gli archetipi di fondono tra loro, formando un insieme ideale con limiti indefiniti, e strutturando e ponendo limiti alla coscienza umana.
La concezione alla base dell’archetipo non è stato concepita originariamente da Jung, è una nozione che troviamo celata nella tradizione filosofica occidentale.
Appare per la prima volta in Platone nel Fedone, compresa nel concetto di eidé, “idea”: per il filosofo greco il mondo intelligibile, il mondo reale degli uomini e delle loro percezioni, è solo il riflesso di un mondo ideale formato da idee pure. Questa teoria viene in seguito ripresa da Plotino fondatore della scuola neoplatonica, e da cui Jung si ispirò moltissimo.
Nella tradizione filosofica europea e cristiana la nozione di archetipo si trova prima in Sant’Agostino, nell’espressione di “idee principali”, poi in John Locke, che definisce gli archetipi nel suo Saggio sull'intelletto umano” del 1690 come “collezioni di idee semplici che lo spirito assembla a se stesso”; per la tradizione empirista l’archetipo è “una sensazione primitiva che serve come punto di partenza per la costruzione psicologica di un’immagine”.
Il concetto comunque è così polisemico che possiamo trovarlo nel pensiero di molti filosofi e scienziati moderni.
Tra i più degni di nota sono le opere di Richard Wolfgang Semon, biologo evoluzionista e zoologo, con la sua teoria di “engramma”, o “traccia cerebrale” ha permesso a Jung di costruire le sue ipotesi di strutture fondanti dell’immaginario collettivo.
Un engramma è un ipotetico elemento neurobiologico che consentirebbe alla memoria di ricordare fatti e sensazioni immagazzinandoli come variazioni biofisiche o biochimiche nel tessuto del cervello e di altre strutture nervose; esso è perciò una sorta di traccia mnemonica che si organizza nel sistema nervoso come conseguenza di processi di apprendimento e di esperienza.
Il termine viene usato per la prima volta nel 1904 nel libro Die mneme, dove Semon lo usa per riferirsi alla rappresentazione neurale di una memoria.
L’engramma era per l’autore un cambiamento permanente nel sistema nervoso, una traccia mnemonica che conserva i suoi effetti di cambiamento dell’esperienza vissuta nel tempo. Il termine viene in seguito ripreso dal neuroscienziato statunitense Karl Lashey, che lo identificò come cambiamento transitorio o permanente nel cervello derivante dalla codifica di un’esperienza.
Secondo la teoria uno stesso evento fatto di immagini, suoni, azioni, parole ed emozioni verrebbe codificato in diverse aree del cervello collegate tra loro da connessioni che danno senso compiuto all’esperienza fatta, ed è questa stessa rete di legami neurali che costituisce l’engramma.
Per concludere tornando a Proust, prima che la narrazione si risolva con la matinée conclusiva, la vita appare come un sogno per il Narratore, che in quel momento viaggia in una vettura che appare scivolare senza far nessun rumore nelle strade coperte da foglie morte; egli sta rivivendo le sue passeggiate infantili sugli Champs-Élysées con la sua nonna ammalata, nell’ora in cui le prime ombre di un tramonto si stagliano su un muro che ricorda rovine di città antiche, il tempo trionfa, tutto questo desta nel viaggiatore impressioni indelebili e profonde.
Proust ci tiene a marcare le sue differenze rispetto alla scrittura realista, ci mostra che in lui risiede un’idea di letteratura che tenta di rappresentare l’altra realtà, una verità profonda. La letteratura realista che si accontenta semplicemente di descrivere le cose dandone appena un rilievo di linee e superfici è la più lontana dalla realtà, è quella che ci impoverisce di più in quanto interrompe bruscamente ogni tipo di comunicazione del nostro presente col passato che ne contiene l’essenza nelle esperienze vissute, e con il futuro dove vi è la speranza di goderne nuovamente; è proprio questa essenza che un’arte degna di tale nome deve esprimere.
La realtà quindi non è un residuo dell’esperienza, ma come Proust fa dire al Narratore, è il “rapporto tra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente”.
Translation - French Ces mots sont tirés du "Le temps retrouvé", septième et dernier volume du monumental ouvrage de Marcel Proust "A la recherche du temps perdu", publié à titre posthume en 1927.
La Recherche n’est pas un narration ordonné d’événements, le roman se concentre sur une réflexion psychologique sur la littérature, la mémoire et le temps, éléments qui, apparemment dispersés, se révèlent nécessairement liés quand le "Narrateur", le vrai héros proustien découvre le sens ultime de la vie dans l’art et la littérature.
Le dernier volume du roman est intitulé "Le temps retrouvé" précisément parce qu’il raconte comment Marcel, le Narrateur protagoniste, se souvient de son passé et le perçoit différemment de la façon dont il l’avait vécu.
Chaque événement prend une signification différente de ce qu’il avait été pour lui, précisément parce que chaque événement est un temps retrouvé dans ses souvenirs.
Cette dernière est la section dans laquelle, après une série de réflexions, Proust éclaire progressivement la nature de sa vocation littéraire; ici se réalisent deux moments superposables mais caractérisés par un mouvement contraire : les intermittences du cœur se convertissent en véritables épiphanies de sens, pendant que le rapport entre le sujet et le Temps se dissout en récupérant l’expérience du passé qui doit cependant encore se produire à travers le récit, la fiction.
C'est grâce aux réflexions du Narrateur que Proust lui-même effectue une méditation sur le réalisme dans la littérature.
Paraphrasant les paroles de Guy Michaud, linguiste et littéraire de notre contemporanéité, le talent d’un grand romancier est d’éclairer le plus possible le secret qui se cache en lui et qui est au centre de l’œuvre mais qui reste multiple et indéfini jusqu’à ce que l’auteur en trouve l’unité, qui donnera ensuite lumière et sens au tout; il s'agit d'essayer de saisir la perspective centrale, l’idée de base à partir de laquelle toute l’œuvre s’éclaire et acquiert un sens, dans l’interprétation,dans la traduction mais également dans la production artistique.
Et c'est ainsi que Proust agit en explorant à partir de la rupture du quotidien à la découverte du temps retrouvé.
La découverte du motif du temps qui intervient entre identité et altérité est le secret fondamental sur lequel repose toute l’œuvre de l’auteur, et la littérature est celle qui en concède le sens ultime.
L’idée même de la littérature et de la manière dont elle est faite a été au centre des réflexions de la plupart des auteurs de chaque époque, et les considérations en ce sens sont infinies.
Un auteur important qui a contribué à la discussion était Italo Calvino avec ses Leçons Américaines, une série de séminaires littéraires qui auraient dû se tenir à la prestigieuse Université d’Harvard, mais qui n'ont malheureusement pas eu lieu dû à la disparition prématurée de l'auteur, n’ont été publiées qu’à titre posthume.
Paraphrasant ce que l’auteur écrit à propos du processus créatif, Il nous dit que la fantaisie est “un endroit dans lequel il pleut”; selon lui, pour faire de la bonne littérature, il faut agir comme des récipients pour l'eau de pluie.
Et alors le processus de création réel se passe, divisé en plusieurs étapes: il s'agit d'une première phase visuelle, on obtient une image vague, brumeuse, pas encore claire dans ses motivations, alors il y a une sorte de traduction verbale de l’image en mots, le modelage de la masse sans forme, une modélisation de la matière qui dessine quelque chose de vivant et de plus réel.
Un acte créatif, presque "divin", de tradition biblique; comme l’écrit Michelangelo "chaque bloc de pierre a une statue en lui et c’est le travail du sculpteur de la découvrir".
Pour Calvino, c’est l’écriture qui donne corps à une intuition, L’écriture est un exercice maïeutique qui nous permet de faire de notre perception une réalité.
L’auteur nous parle de l’écriture de mots comme d’une grande plage pleine d’infinis grains de sable et ce sont les mots: “pages de signes alignés denses comme des grains de sable représentent le spectacle coloré du monde dans une surface toujours égale et toujours différente, comme les dunes poussées par le vent du désert”.
Bien qu’il existe une sorte d’unicité de l’écriture déterminée par ses codes, nous aurons toujours la possibilité grâce à notre imagination et à notre être unique au monde de créer une série infinie et toujours nouvelle d’histoires, nous devons être capables de rester nous-mêmes à tout moment.
La théorie de la traduction peut nous aider ici, et différentes idées sur la traduction nous aident à mieux comprendre le sens de ce qui a été dit.
Un point de vue considérable est celui du linguiste italien Antonio Lavieri.
Selon sa perspective, le point clé de la traduction est le mimesis, l’imitation, la représentation.
La traduction est asymptotique, elle ne doit pas être comprise comme une coïncidence totale mais comme une "ressemblance", car l’interchangeabilité pure entre différents systèmes ne peut pas exister, ce n’est pas une science exacte comme les mathématiques.
Et encore Emilio Mattioli, professeur et intellectuel italien, poursuit le discours sur le concept de "traduction asymptotique": la traduction, de quelque nature que ce soit, doit se rapprocher de plus en plus de l'original sans jamais coïncider avec lui.
Ici, nous pouvons mieux comprendre le lien qui existe entre les deux disciplines de la littérature.
De même que la traduction ne peut que refléter le texte original, l'écriture ne peut jamais expliquer nos pensées les plus profondes, mais elle peut essayer de les approcher.
Pour Paul Valéry, poète et philosophe français, il n’y a pas d’opposition entre traduction et écriture car celle-ci est une forme de traduction de la pensée, et de même qu’un texte littéraire vient se qualifier d’objet esthétique et herméneutique, Même la masse non verbale et sensitive que nous avons en nous, la "pierre brute et informe", vient se poser comme objet esthétique et herméneutique qui doit être interprété, compris et ensuite expliqué par l’utilisation de la forme, du mot.
Pour Paul Ricoeur, philosophe français, phénoménologue et herméneutique, le concept de métaphore nous dit quelque chose de spécifique sur notre façon de nous représenter la réalité : le langage n’est pas une copie de la réalité mais sa reconfiguration.
La métaphore reproduit une représentation subjective de la réalité, la métaphore réinterprète la réalité.
Dans "Temps et récit", ouvrage monumental consacré à la théorie de la littérature, l’auteur nous explique que le récit est un acte de poiesis, de production sémantique et donc un modèle d’interprétation exemplaire puisqu’il produit du sens à travers une représentation de la réalité, et pas comme un reflet.
Ecrire est un acte de compréhension et d’explication, tous deux de nature personnelle et subjective, et la seule façon de représenter notre réalité personnelle est d’en donner une forme narrative particulière qui nous la fait représenter de manière subjective.
Métaphore vient du grec "metaphora", composé de méta "au-delà", et phero "apporter".
La métaphore est un acte de transfert, de réinterprétation de la réalité et de création originale; à travers la métaphore, on crée et on reconnaît le sens.
C’est ce qui se passe dans toutes les disciplines artistiques, à travers les instruments qu’elles nous donnent à disposition, des notes musicales aux formes visuelles, nous transférons une idée en œuvre.
Et c’est la forme qui donne sens au tout, l’ordre, l’harmonie, l’esprit apollinique qui donne sens au chaos de la force dionysiaque.
Et c’est justement Nietzsche qui nous explique que toute tentative de l’homme de "s’approprier" de la réalité, c’est-à-dire de la comprendre, ne peut qu’échouer puisqu’elle n’est pas soumise à un ordre rationnel supérieur; l’expression qu’il emploie en ce sens est nature rerum, une nature des choses que l’homme ne peut comprendre et expliquer qu’en partie, mais ne peut pas s’en approprier car elle est transcendante au esprit humain.
Et c’est précisément la limite de l’homme, l’incapacité de comprendre pleinement la réalité qui l’entoure; et cette limite est intrinsèque à la nature humaine, à sa capacité d’interagir avec le monde et à sa manière de l’expliquer, avec le langage.
Pour Ludwig Wittgenstein "les limites de mon langage indiquent les limites de mon monde", le langage est la torche qui ne peut éclairer que de petites portions de l’obscurité qui nous entoure, ne pouvant en voir qu’une petite partie, et en laissant de côté le cadre général de la réalité; et parfois, cela peut aussi influencer la façon dont nous percevons les choses.
Selon l’Hypothèse de la relativité linguistique, également connue sous le nom d'Hypothèse de Sapir-Whorf, qui tire son nom des deux chercheurs américains d’origine allemande qui l’ont formulée Edward Sapir et son élève Benjamin Lee Whorf, le développement cognitif de chaque être humain est influencé par la langue qui parle, et dans la forme la plus extrême de la théorie, qui est d’ailleurs bien représentée par le film chef-d’œuvre de Denis Villeneuve "Arrival", il affirme aussi que la façon de s’exprimer détermine la façon de penser.
Le système verbal de sons et d’images que nous assimilons quand nous sommes enfants nous permet de communiquer nos pensées en donnant forme et en traduisant quelque chose de semblable à un système basé sur une structure que nous ne connaissons pas encore bien.
Pour Roman Jakobson, l’un des plus grands linguistes du siècle dernier, il existe trois types de traduction : une interlinguistique ou d’une langue à l’autre, une intralinguistique ou une reformulation du texte dans la même langue, et une intersémiotique, c’est-à-dire que le transfert de sens passe d’un système de signes non verbaux à un système de signes verbaux.
L’écriture est un type particulier de traduction, et suivant le schéma de Jakobson, elle est de type intersémiotique car le système à partir duquel nous partons, cet endroit "où il pleut dedans", peut être interprété comme un système non verbal, un système que nous connaissons peu encore scientifiquement, mais qui repose sur des symboles, des sensations, des couleurs, des images et des sons liés aux émotions et aux idées.
Un système symbolique non structuré selon les configurations que nous connaissons aujourd’hui, mais sur lequel la psychologie et les neurosciences modernes s’y concentrent beaucoup.
Un concept intéressant qui peut contribuer à ce discours est celui d’Archétype, développé par le psychiatre suisse Carl Jung.
L’archétype, du grec ancien “arkhêtupon”, "modèle primitif", est une forme de représentation a priori contenant un thème universel structurant la psyché, commune à toutes les cultures mais représentée sous diverses formes symboliques.
Jung considère l’archétype comme "une structure de représentation a priori", ou même comme une image primordiale ; les archétypes sont des formes instinctives de représentation mentale.
Les archétypes apparaissent traditionnellement dans les mythes, les religions, mais aussi dans les rêves; ils forment des catégories symboliques qui structurent les cultures et les mentalités et orientent le sujet vers son évolution intérieure, définie comme une identification dans la psychologie de Jung.
Selon le psychiatre, les archétypes sont essentiellement caractérisés par le fait qu’ils associent un symbole à une émotion. La capacité imaginative humaine est donc formée par un ensemble indéfini d’archétypes liés par une structure symbolique aux sensations et aux idées.
Parce qu’ils représentent des thèmes universels qui sont à l’origine de toutes les questions sur l’avenir de l’homme ou sur sa nature la plus profonde, les archétypes forment un "champ de significations" regroupant toutes les représentations humaines; sont ainsi liées entre elles selon la culture de référence et l’époque à laquelle elles se rapportent.
Mais ils peuvent aussi s’influencer les uns les autres, "se contaminer"; la "loi de contamination" décrit précisément ce type de réalité, dont il est impossible d’en faire un schéma puisque les archétypes fusionnent entre eux, formant un ensemble idéal avec des limites indéfinies, et structurant et limitant la conscience humaine.
La conception derrière l’archétype n’a pas été conçue à l’origine par Jung, c’est une notion que nous trouvons cachée dans la tradition philosophique occidentale.
Il apparaît pour la première fois dans Platon dans le Phédon, compris dans le concept d’eidé, "idée" : pour le philosophe grec, le monde intelligible, le monde réel des hommes et de leurs perceptions, n’est que le reflet d’un monde idéal formé d’idées pures. Cette théorie est reprise plus tard par Plotin, fondateur de l’école néoplatonicienne, et dont Jung s’inspire beaucoup.
Dans la tradition philosophique européenne et chrétienne, la notion d’archétype se trouve d’abord chez saint Augustin, dans l’expression des "idées principales", puis chez John Locke, qui définit les archétypes dans son ”Essai sur l’intellect humain" de 1690 comme "collections d’idées simples que l’esprit assemble à lui-même"; pour la tradition empiriste, l’archétype est "un sentiment primitif servant de point de départ à la construction psychologique d’une image".
Le concept est cependant si polysémique que nous pouvons le trouver dans la pensée de nombreux philosophes et scientifiques modernes.
Parmi les plus remarquables figurent les œuvres de Richard Wolfgang Semon, biologiste évolutionniste et zoologue, avec sa théorie de l’engramme, ou "trace cérébrale" qui a permis à Jung de construire ses hypothèses de structures fondatrices de l’imaginaire collectif.
Un engramme est un élément neurobiologique hypothétique qui permettrait à la mémoire de se souvenir de faits et de sensations en les assimilant comme des variations biophysiques ou biochimiques dans les tissus du cerveau et d’autres structures nerveuses; C’est donc une sorte de trace mnémonique qui s’organise dans le système nerveux comme conséquence de processus d’apprentissage et d’expérience.
Le terme est utilisé pour la première fois en 1904 dans le livre Die mneme, où Semon l’utilise pour se référer à la représentation neuronale d’une mémoire.
L’engramme était pour l’auteur un changement permanent dans le système nerveux, une trace mnémonique qui conserve ses effets de changement de l’expérience vécue dans le temps. Le terme est ensuite repris par le neuroscientifique américain Karl Lashey, qui l’a identifié comme un changement transitoire ou permanent dans le cerveau résultant du codage d’une expérience.
Selon la théorie, un même événement fait d’images, de sons, d’actions, de mots et d’émotions serait codé dans différentes zones du cerveau reliées entre elles par des connexions qui donnent un sens à l’expérience faite; c’est ce même réseau de connexions neuronales qui constitue l’engramme.
Pour conclure en revenant à Proust, avant que le récit ne se résolve avec la matinée finale, la vie apparaît comme un rêve pour le Narrateur, qui voyage à ce moment dans une voiture qui semble glisser sans faire de bruit dans les rues couvertes de feuilles mortes; il est en train de revivre ses promenades enfantines sur les Champs-Élysées avec sa grand-mère malade, à l’heure où les premières ombres d’un coucher de soleil se détachent sur un mur qui rappelle les ruines de villes anciennes, le temps triomphe, tout ceci suscite dans le voyageur des impressions indélébiles et profondes.
Proust tient à marquer ses différences avec l’écriture réaliste, il nous montre qu’en lui réside une idée de littérature qui tente de représenter l’autre réalité, une vérité profonde.
La littérature réaliste qui se contente simplement de décrire les choses en donnant juste un relief de lignes et de surfaces est la plus éloignée de la réalité, est celle qui nous appauvrit le plus car elle interrompt brusquement toute communication de notre présent avec le passé qui en contient l’essence dans les expériences vécues, et avec l’avenir où il y a l’espoir d’en jouir à nouveau; c’est précisément cette essence qu’un art digne de ce nom doit exprimer.
La réalité n’est donc pas un vestige de l’expérience, mais comme Proust fait dire au Narrateur, c’est le "rapport entre les sensations et les souvenirs qui nous entourent simultanément".
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