IL PIÙ CELEBRE SEMIOLOGO ITALIANO E LE SUE ESPERIENZE DI TRADUZIONE/1

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IL PIÙ CELEBRE SEMIOLOGO ITALIANO E LE SUE ESPERIENZE DI TRADUZIONE/1

By Marco Borrelli | Published  04/1/2005 | Italian | Recommendation:RateSecARateSecARateSecARateSecARateSecI
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IL PI CELEBRE SEMIOLOGO ITALIANO E LE SUE ESPERIENZE DI TRADUZIONE/1
Se di una consacrazione ufficiale dell’interesse semiotico per il concetto di traduzione non si può ancora parlare, va detto che la recente pubblicazione di Dire quasi la stessa cosa, il nuovo libro di Umberto Eco dedicato alle sue esperienze di traduzione, all’interno della collana Il campo semiotico curata dallo stesso autore, ne costituisce almeno un importante riconoscimento.
Non si tratta di un lavoro sistematico intorno al concetto di traduzione ma di raccogliere e organizzare una serie di scritti e articoli realizzati in varie occasioni (a partire dal 1983), rielaborarli e arricchirli di nuovi spunti e riflessioni pur cercando “di mantenere il tono di conversazione” dei testi originali. In pratica, neanche Eco si assume la responsabilità di proporre al pubblico un manuale di semiotica applicata alla traduzione ma anche così il suo lavoro è un importante e utile passo avanti nel tentativo di affermazione della valenza semiotica della nozione di traduzione.
Eco non fa nessuno “speciale riferimento alla semiotica Charles S. Peirce”, né di nessun altro, pur attingendo a più riprese dallo stesso Peirce, da Jakobson, Hjelmslev, Humboldt, etc. Non c’è da stupirsi, in realtà; Eco concepisce la semiotica in modo molto ampio e comprensivo. L’ispirazione peirciana resta molto forte ma non è mai esclusiva e noi non siamo riusciti a trovarci in disaccordo. Tutti e quattordici i capitoli di questo saggio sembrano voler dire una sola cosa – che resta implicita: nel momento in cui si denuncia la necessità di un approccio interdisciplinare che in una cornice semiotica affronti il problema della traduzione, non si possono porre limiti teorici a quello che la semiotica comprende. La semiotica echiana riesce a contenere insieme i padri dello strutturalismo e della filosofia triadica senza per questo essere contraddittoria. Attingere da un’intuizione hjelmsleviana, per fare un esempio, non equivale meccanicamente ad un tradimento teorico, ad un passo falso o ad una mancanza di rigore scientifico, a patto che la cornice di riferimento sia ben chiara (e Eco assume un approccio inequivocabilmente peirciano, anche se estesamente inteso) e che tale intuizione venga ben contestualizzata nel proprio approccio.
Eco ci apre gli occhi su quel che è la semiotica oggi, e su quanto questa semiotica allargata sia un ottimo quadro di riferimento per affrontare approfonditamente il problema centrale di questo nostro lavoro.

La questione centrale che Eco presenta nell’introduzione riguarda il come “pur sapendo che non si dice mai la stessa cosa, si possa dire quasi la stessa cosa” . Questo quasi, come scopriamo andando poco più avanti, ha molto a che fare con qualcosa di peirciano. Eco sostiene che:

“tradurre vuole dire capire il sistema interno di una lingua e la struttura di un testo dato in quella lingua, e costruire un doppio del sistema testuale che, sotto una certa descrizione, possa produrre effetti analoghi nel lettore, sia sul piano semantico e sintattico che su quello stilistico”

Appare evidente la derivazione peirciana di quel “sotto una certa descrizione” . Se consideriamo quel doppio del sistema testuale (la traduzione) come un interpretante e lo confrontiamo con la semiotica peirciana risulta lampante che questo doppio non è mai un doppio identico ma un interpretante che sotto certi aspetti e capacità interpreta il representamen (l’originale testuale). In questa dinamica Eco affronta anche il problema della fedeltà, il cui grado rispetto all’originale “dipende dai fini che si pone il traduttore” . Non dobbiamo, infatti dimenticarci che un segno (o un interpretante) “sta per qualcuno”. L’interprete seleziona i tratti dell’oggetto pertinenti alla circostanza, il Ground. Nel caso della traduzione, allora, la fedeltà all’originale dipenderà dalle intenzioni e capacità comunicative del traduttore che sceglierà di privilegiare alcuni aspetti e sacrificarne altri rispetto alle proprie esigenze comunicative e alla sua personale abilità.
Ma Eco non si limita a questo, egli si poggia sul pensiero peirciano per arricchire il concetto di interpretazione e chiamarlo negoziazione. La negoziazione è il processo su sui si basa il processo traduttivo. Essa è:

“un processo in base al quale, per ottenere qualcosa, si rinuncia a qualcosa d’altro”

con reciproca soddisfazione di ambo le parti. A quanto ci risulta Peirce non parla di negoziazione, suggerisce solo che in base alla circostanza l’emittente del segno selezionerà alcuni aspetti del segno precedente più pertinenti alla circostanza. Che il traduttore sia un interprete/mediatore alla continua ricerca dell’equilibrio tra l’intentio operis e il target text reader è una novità introdotta da Eco.

L’affermazione da cui prende avvio la trattazione del problema vero e proprio è la seguente:

“La traduzione, ed è un principio ormai ovvio in traduttologia, non avviene tra sistemi, bensì tra testi.”

Il motivo per cui Eco si preoccupa di chiarire questo punto è che se non lo facesse e si pensasse invece che la traduzione è un processo avente luogo tra sistemi si finirebbe automaticamente col dire che essa è impossibile. A partire da Humboldt e fino a Sapir e Whorf si è affermata l’idea che ogni lingua ritaglia arbitrariamente ed in base alle proprie esigenze sociali il continuum dei significati e che per questo motivo non è possibile rintracciare una corrispondenza biunivoca tra termini di lingue diverse.
Se ci limitassimo al rapporto tra due o più sistemi linguistici dovremmo concludere, secondo Eco, che:

“due sistemi del contenuto sono mutualmente inaccessibili, ovvero incommensurabili, e che pertanto le differenze nell’organizzazione del contenuto rendono la traduzione teoricamente impossibile.”

Tuttavia incommensurabilità non significa incomparabilità e già la comparazione ci rende edotti su dove risiede lo sfalsamento semantico. Se poi consideriamo che a nessun traduttore verrà mai chiesto di tradurre un parola “avulsa da qualsiasi contesto” e che:

“Il traduttore invece traduce sempre testi, vale a dire enunciati che appaiono in qualche contesto linguistico o sono proferiti in qualche situazione specifica.”

ci rendiamo conto di come in realtà la traduzione divenga possibile. In questo gioco molta parte spetta alla capacità immaginativa del traduttore. Spesso, dice Eco, al traduttore mancano tracce adeguate per capire dal contesto testuale in che modo risolvere lo sfalsamento di cui abbiamo parlato. Egli deve allora operare congetture e ipotesi sul mondo possibile del testo che di fronte a sé . In questo modo può risolvere le ambiguità che costituiscono delle difficoltà alla buona riuscita di una traduzione.

Che la concezione della traduzione come negoziazione in Eco sia in stretto rapporto con la teoria degli interpretanti di Peirce lo abbiamo già anticipato. Ora cercheremo di approfondire e chiarire meglio la concezione echiana e le sue derivazioni peirciane.
E’ lo stesso studioso bolognese a presentare la teoria degli interpretanti per definire il significato. L’imprendibilità del significato, l’impossibilità di fissare una definizione del significato di un termine, secondo Eco, è:

“coerente con una semiotica ispirata a Charles Sanders Peirce”

e con la semiosi illimitata per cui per stabilire il significato di un segno è necessario sostituirlo con un altro segno e poi con un altro e così via ad infinitum. Ma a Eco non preme di applicare il pensiero del filosofo americano alla lettera e poco più avanti corregge il tiro:

“Tuttavia, proprio una nozione così ampia di interpretante ci dice che, se certamente una traduzione è una interpretazione, non sempre una interpretazione è una traduzione. […] Dunque non basta, per tradurre, produrre un interpretante del termine, dell’enunciato o del testo originale. Peirce dice che l’interpretante è quello che mi fa sapere qualcosa di più […] [ma] talora l’interpretante può anche dirmi un qualcosa di più che, rispetto a un testo da tradurre, è qualcosa di meno.”

Per Eco, quindi, il significato non è solo la summa di grounds, che di volta in volta l’interprete seleziona in base al contesto, ma è anche una negoziazione, ovvero una specie di tira e molla per cui per ottenere qualcosa “si rinuncia a qualcosa d’altro”. La differenza è sottile ma, a nostro avviso, importante. Nella teoria degli interpretanti il significato non si negozia, si decide in base a tratti di significati pertinenti al contesto, la negoziazione, invece, presuppone, un incontro di volontà divergenti. Nel primo caso è la circostanza a decidere, nel secondo sono due menti distinte .
Per chiarire meglio la sua concezione di negoziazione Eco riprende alcune distinzioni già usate in passato come quella tra Tipo Cognitivo, Contenuto Nucleare e Contenuto Molare. Il TC corrisponde ad una specie di schema mentale che ogni uomo possiede in base al quale è capace di riconoscere una data occorrenza di un dato oggetto; secondo questo schema, sostiene Eco, tutti quanti siamo d’accordo, se vediamo passare un gatto per strada, che quello è un gatto e non è un cane. Il CN invece rappresenta quell’insieme di interpretanti che si usano per spiegare ad altri cosa sia un gatto. Il CN non rappresenta tutto quello che sappiamo del gatto ma le informazioni minime per poter riconoscerlo come tale, come la definizione che troviamo in un dizionario. Infine il CM corrisponde ad una conoscenza allargata del concetto in questione, quindi somma alle informazioni minime del CN, utili per il riconoscimento percettivo dell’oggetto, anche informazioni non indispensabili come quelle che un veterinario o uno zoologo hanno intorno al concetto di |gatto|. Il CN è generalmente socialmente condiviso, il CM è, invece, opinabile. Parlando astrattamente della traduzione sarebbe facile, a dire di Eco, sostenere che per tradurre basterebbe scegliere quel termine che meglio convoglia il CN corrispondente nella lingua di destinazione. In realtà, spesso non è così. Se anche può essere utile ad un traduttore maneggiare i significati in termini di CN perché diventano così meno sfuggenti, capita spesso che il traduttore debba sconvolgere il CN per non tradire l’intentio operis.
Negoziare vuol dire appunto questo e tradurre equivale a negoziare tra diverse esigenze proprie e dell’altro (se non quelle dell’autore almeno quelle dell’opera stessa) e rinunciare a quelle dall’urgenza meno forte.



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